La nostalgia gioca brutti scherzi, spesso si fa beffe del nostro cuore. Ci riporta indietro nel tempo, come in un film in bianco e nero, e ci rivediamo assieme a persone che non ci sono più e che hanno disegnato momenti importanti della nostra vita, momenti multicolori e vibranti, come in un giardino dove fioriscono le rimembranze.
Il babbo sapeva raccontare e raccontarsi, l’avremmo ascoltato per ore immaginando, come se fossimo stati suoi compagni d’arme, tutti gli episodi che lui tratteggiava con impareggiabile arte. Aveva un nome strano mio padre: Lidoino. Già questo spesso è bastato per mantenere acceso il ricordo presso le persone che l’hanno incrociato, ma più ancora restano ben vivi il suo sorriso, aperto e cordiale, il suo sguardo, accogliente ed ottimista, la voce suadente e attoriale e i gesti ampi delle mani che ti accompagnavano dentro la scena, assieme a lui.
E allora ecco scaturire, come lucenti bolle di sapone, le narrazioni della guerra, quando appena diplomato, ancora diciannovenne, si trasferì a Milano per inseguire il suo sogno: progettare radiotrasmettitori.
Papà nel 1940 venne assunto da una importante azienda che operava nella costruzione di apparecchi per la telegrafia, radiotelefonia e radiotelegrafia. Purtroppo tutto venne distrutto quando prese forma il peggiore incubo che la stoltezza umana possa generare: la guerra. I bombardamenti del 1943 sulla città danneggiarono lo stabilimento.
“Perdetti il lavoro, ma avevo ancora la vita. Quante volte mi sono svegliato al mattino e ringraziavo la Provvidenza perché vedevo ancora il sole” era solito ripetere. “Quando l’incubò finì non c’erano più le case, le strade, molti amici. E non c’era più neppure il sogno”.
Mio padre però era un inguaribile ottimista e, come l’Araba Fenice, ripartì dalle macerie con pochi strumenti. Un bilancino da farmacista e una vecchia bicicletta e papà era di nuovo letteralmente in sella.
Dopo l’esperienza a Milano, questo è stato il suo racconto preferito: “C’erano pochi mezzi” era solito narrare. “Mia mamma mi fece un piccolo prestito con il quale acquistai una vecchia bicicletta arrugginita ed un bilancino. Poi comprai mezzo sacco di pepe che andavo a macinare da un amico a Bassano del Grappa. Le strade non erano asfaltate, erano piene di buche e la forcella, dai e dai, cominciò a piegarsi; così ho dovuto rinforzarla con due righelli di ferro”.
Papà non ce lo ha mai detto, ma tra i pochi mezzi ce n’era uno che nessun prestito può mai comprare: la sua voglia di ripartire e di vivere ogni giorno ringraziando il buon Dio perché ancora una volta aveva visto nascere il giorno.
E a me piace immaginarlo ancora mentre rientra a sera tardi, quando il cielo esplode nell’ultimo spasimo rosso del sole, con il sacco di pepe sul manubrio intento a mantenere l’equilibrio, affaticato e sudato, ma contento perché cullava in cuore un nuovo sogno.